Il legislatore, per affrontare il grave problema del lavoro sommerso, nel corso degli anni, ha emanato una serie di norme volte a contrastare tale fenomeno.
La prima disposizione, in ordine cronologico, contro il lavoro nero, è stata introdotta nel nostro ordinamento dall’art. 3, comma 3, del D.L. n. 12/2002 convertito nella legge n. 73/2002. Secondo tale norma, ferma restando l’applicazione delle altre sanzioni, l’impiego di lavoratori dipendenti non risultanti dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria era soggetto ad una sanzione amministrativa dal 200 per cento al 400 per cento dell’importo del costo del lavoro (calcolato sulla base dei CCNL), per ciascun lavoratore irregolare, per il periodo compreso tra l’inizio dell’anno e la data di constatazione dell’illecito.
L’art. 36-bis, c. 7, lettera a) D.L. n. 248/2006, ferma restando l’applicazione delle sanzioni già previste, ha stabilito che l’impiego di lavoratori non risultanti dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria è, altresì, punito con la sanzione amministrativa da 1.500 a 12.000 euro per ciascun lavoratore, maggiorata di 150 euro per ciascuna giornata di lavoro effettivo. Per il medesimo fatto, è previsto che l’importo delle sanzioni civili connesse all’omesso versamento dei contributi e premi non può essere inferiore a 3.000 euro indipendentemente dalla durata della prestazione lavorativa irregolare accertata e sempre che sia già scaduto il termine per la denuncia ed il dovuto versamento contributivo.
Successivamente, la Legge n. 183 del 2010 (Collegato Lavoro) è intervenuta eliminando il “tetto minimo” dei 3.000 euro e prevedendo unicamente un aumento del 50 per cento delle sanzioni. Ed infatti, ad oggi, le sanzioni civili sono calcolate nella misura del 30 per cento “in ragione d’anno” della contribuzione evasa (fino ad un massimo del 60 per cento) e l’importo così determinato è maggiorato del 50 per cento.
La Corte costituzionale, con la sentenza 254/2014, ha bocciato la cd. “maxi sanzione”, prevista dall’art. 36-bis, c. 7, lettera a) D.L. n. 248/2006, poiché ha decretato incostituzionale, definendola “sproporzionata” e “irragionevole”, la previsione di una sanzione fissa pari a 3.000 euro per l’omesso versamento dei contributi previdenziali, a prescindere dalla durata della prestazione lavorativa.
La Corte si è espressa per il caso sollevato dal Tribunale di Bologna, avente per oggetto l’impiego di lavoratori in nero per brevi periodi, omettendo quindi il versamento dei relativi contributi. Nel caso in questione, la Corte ha, appunto, osservato l’evidente irragionevolezza in quanto le assunzioni irregolari avevano avuto una durata compresa tra i 3 ed i 20 giorni, per un inadempimento contributivo verso l’Inps di 2.253 euro, sanzionato con 45.000 euro; mentre l’inadempimento nei confronti dell’Inail di soli euro 450,62 ha, analogamente, comportato la sanzione civile di euro 45.000.
La sentenza ha sottolineato come il riferirsi unicamente al numero di “lavoratori non risultanti dalle scritture” può rendere la sanzione del tutto sproporzionata rispetto alla gravità dell’inadempimento. Ed anche incoerente con la sua natura, in quanto, secondo la costante giurisprudenza della Cassazione, essa ha natura di sanzione civile, e non amministrativa, con una funzione dunque essenzialmente risarcitoria, poiché è volta a quantificare, in via preventiva e forfettaria, il danno subito dall’ente previdenziale. Per cui predeterminarlo in via presuntiva, escludendo dal computo la durata, l’ha resa arbitraria e irragionevole, proprio perché prescinde dalla sua entità che dipende dalla durata dell’impiego.
Quando la Consulta si esprime pronunciando l’illegittimità costituzionale di una norma di legge si ha la disapplicazione della stessa; la disapplicazione dà luogo ad un fenomeno che si colloca in una posizione intermedia tra l’abrogazione, avente di regola efficacia ex nunc e l’annullamento che produce effetti ex tunc. La dichiarazione di incostituzionalità comporta, infatti, la cessazione dei soli effetti non definitivi e, nei rapporti ancora in atto, anche degli effetti successivi alla pubblicazione della sentenza della Corte.
La sentenza, dunque, dispone soltanto per il futuro e non per il passato o meglio, l’efficacia retroattiva viene meno nel caso di situazioni giuridiche consolidate per effetto di eventi che l’ordinamento giuridico riconosce idonei a produrre tale effetto, quali le sentenze passate in giudicato, l’atto amministrativo non più impugnabile, la prescrizione e la decadenza (Cass. Civ. sez. III 28 luglio 1997 n. 7052).
Palermo 14 novembre 2014 Dott. Angelo Pisciotta