Il potere disciplinare è riconosciuto al datore di lavoro dall’art. 2106 cod. civ., secondo il quale l’inosservanza del dovere di diligenza, di obbedienza o dell’obbligo di fedeltà (artt. 2104 e 2105, cod. civ.) espone il lavoratore all’applicazione di sanzioni disciplinari.
Tuttavia l’applicazione delle sanzioni disciplinari al lavoratore si verifica anche nel caso di violazione delle disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo, dai quali gerarchicamente il lavoratore dipende, nel caso di violazione delle norme stabilite unilateralmente dal datore di lavoro ed esplicitate nel codice disciplinare, ed infine ma certamente non di minore importanza nel caso di violazione di norme stabilite da accordi e contratti di lavoro.
Il comma 1 dell’art. 7 della legge 300/1970 stabilisce l’obbligo per il datore di lavoro di redigere per iscritto un “codice disciplinare”, contenente le norme relative alle sanzioni, alle infrazioni in relazione alle quali ciascuna sanzione può essere applicata ed alle procedure di contestazione delle stesse, e poi di portarlo a conoscenza di tutti i lavoratori previa affissione dello stesso in luogo accessibile a tutti.
Conseguentemente non potrà essere comminata alcuna sanzione disciplinare al lavoratore qualora il datore di lavoro non abbia rispettato il requisito della forma e della pubblicità del codice disciplinare o, in caso di una sanzione già comminata, questa sarà nulla.
Si deve evidenziare, però, che la violazione del precetto di cui sopra non comporta sempre, per costante orientamento giurisprudenziale, la nullità della sanzione irrogata. Premesso, infatti, che l’affissione del codice, cosi come imposta dalla norma, costituisce requisito essenziale per la validità della sanzione disciplinare, si deve osservare che la ratio di tale adempimento consiste nella necessità di portare a conoscenza il lavoratore di peculiari esigenze dell’azienda che, se violate dai comportamenti dei dipendenti, possono condurre all’esercizio del potere sanzionatorio dell’imprenditore.
La Suprema Corte, da ultimo con la sentenza 10 maggio 2010, n. 11250 ha confermato la validità delle sanzioni che, pur se inflitte in mancanza di codice disciplinare regolarmente affisso, riguardino violazioni di doveri “…omissis…previsti dalla legge o comunque appartenenti al patrimonio deontologico di qualsiasi persona onesta, ovvero dei doveri imposti al prestatore di lavoro dalle disposizioni di carattere generale proprie del rapporto di lavoro subordinato…omissis…”. Consegue che da tale forma di pubblicità si può prescindere allorché il lavoratore si sia reso autore di comportamenti la cui illiceità possa essere conosciuta ed apprezzata dal singolo, senza bisogno di previo avviso.
Inoltre vi è anche un orientamento secondo il quale è sufficiente che il codice indichi sinteticamente le possibili infrazioni e le conseguenti sanzioni disciplinari (Cassazione, sentenza n. 1703 del 17 febbraio 1988); se però la contrattazione nazionale o il datore di lavoro prevedono delle procedure più garantiste per il lavoratore rispetto a quelle previste dall’art.7 della legge n.300/1970, occorrerà che il codice specifichi anche le procedure di contestazione.
La giurisprudenza ritiene che non si possano utilizzare mezzi equipollenti all’affissione (ex plurimis Cassazione sentenza n. 692 del 3 febbraio 1989 e Cassazione n. 10201 del 27 maggio 2004) eccetto che in casi particolari come ad esempio, nel caso in cui la sede dell’azienda sia presso l’abitazione di un socio, non vi siano uffici e la prestazione lavorativa dei dipendenti sia di tipo itinerante in luoghi sempre diversi, per cui non esiste un luogo per l’affissione ai sensi di legge (Trib. Milano, 30 aprile 1994). Inoltre, se l’azienda ha più unità produttive, il codice va affisso in ognuna di queste.
Infine, per quanto riguarda il dato temporale, si ritiene che lo stesso non debba rimanere affisso solo un certo periodo di tempo per quanto lungo ma debba rimanere sempre affisso e quindi esserlo anche nel momento in cui venga commessa l’infrazione da parte del lavoratore (ex plurimis Cassazione sentenza n. 3322 del 1° giugno 1984 e Cassazione, n. 2366 del 18maggio 1989).
Palermo 23 ottobre 2014 Dott. Angelo Pisciotta