L’articolo 1321 del codice civile prevede che “il contratto è l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale” ed il successivo articolo 1325 prevede che uno dei requisiti del contratto sia l’accordo delle parti. Dalla lettura combinata dei due articoli si evince che per la modifica del contratto, in generale, è necessario l’accordo delle parti.
Però, in alcuni casi che saranno esaminati, l’ordinamento attribuisce ad una delle parti del contratto il potere di modificare unilateralmente uno o più punti del regolamento contrattuale o il contenuto del contratto. Tale potere, detto jus variandi, nasce per far fronte, nei contratti di durata, alle evenienze che sopravvengono in un rapporto che si svolge nel tempo, non previste e, forse, non prevedibili, nell’accordo originario.
Il nostro ordinamento prevede tre tipi di jus variandi: 1) jus variandi attribuito direttamente dalla legge ad una delle due parti del contratto; 2) jus variandi che può essere concesso ad una delle parti da una clausola del contratto; 3) jus variandi che eccede il potere di conformazione del datore di lavoro.
Naturalmente, ci occuperemo della terza fattispecie che delinea una linea di confine tra il potere direttivo o di conformazione ed il potere di modificare uno o più punti del contratto.
Mentre lo jus variandi è lo speciale potere giuridico di modificare unilateralmente e senza il consenso dell’altra parte, il contenuto della prestazione oggetto dell’obbligazione di lavorare, il potere direttivo o di conformazione è il potere libero tramite il quale il datore si limita a disporre le variazioni dei compiti nell’ambito dell’attività convenuta, senza modificare, quindi, la complessiva prestazione lavorativa dedotta in contratto, bensì prevedendo soltanto a “scegliere“ di volta in volta quali mansioni egli voglia che il dipendente svolga in quel determinato momento, tra quelle comprese nelle mansioni di assunzione.
La questione non è di poco conto. Le tesi contrapposte sono due: la prima che sostiene che per la modifica delle mansioni sia necessario l’accordo del dipendente e l’altra che riconduce al potere direttivo tale variazione e non necessita, pertanto, dell’accordo del dipendente.
Il Codice Civile all’articolo 2103, modificato dall’art. 13 Legge n.300/70 (cd. Statuto dei lavoratori), recita: “ il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto oppure a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione delle retribuzione”.
L’articolo 2103 del codice civile, prevede soltanto che il lavoratore “deve” essere adibito, in alternativa alle mansioni di assunzione, alle mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte ma nulla dice se riferito ad un potere unilaterale o ad un accordo. Inoltre, a supporto della tesi che sostiene la necessità dell’accordo, la precedente formulazione dell’articolo 2103 del codice civile prevedeva che “l’imprenditore può, in relazione alle esigenze dell’impresa, adibire il prestatore di lavoro ad una mansione diversa….”. Nella attuale formulazione dell’articolo 2103, quindi, scompare la parola “può” che attribuiva espressamente tale facoltà al datore di lavoro.
La tesi maggioritaria in dottrina è che nel corso dello svolgimento delle prestazioni, il datore di lavoro può, tuttavia, per esigenze organizzative o di ristrutturazione aziendale, modificare le mansioni del lavoratore in mansioni equivalenti, a condizione che ciò avvenga nel rispetto del “dato definito oggettivo, rappresentato dall’appartenenza di ambedue i tipi di mansione, di provenienza e di destinazione, al medesimo livello di inquadramento contrattuale” e che le mansioni di destinazione consentano “l’utilizzazione ovvero il perfezionamento e l’accrescimento del corredo di esperienze, nozioni e perizia acquisite nella fase pregressa del rapporto” ( Cass. ss.uu. 7 agosto 1998, n. 7755).
A supporto di tale tesi, e cioè che il datore di lavoro possa modificare unilateralmente le mansioni del lavoratore, tale potere non viene ricondotto ad una modifica contrattuale, per la quale sarebbe necessario l’accordo delle parti, ma al potere direttivo, definito dall’art. 2104 c.c., il quale recita che: “il prestatore di lavoro deve osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende.”
Alla luce di tutto quanto evidenziato, la questione non appare definitivamente chiarita. Coesistono, pertanto, nel panorama della dottrina tesi di autorevoli autori che negano tale potere di modifica unilaterale delle mansioni e sostengono la necessità dell’accordo delle parti e tesi che riconducono la modifica delle mansioni al potere direttivo e negano, invece, la necessità dell’accordo.
Palermo, 27 novembre 2013 Dott. Angelo Pisciotta