L’art.46 del Decreto-Legge 17 marzo 2020, n. 18, c.d. Decreto “Cura Italia”, prevede che a decorrere dal 17 marzo 2020, sono precluse, per 60 giorni, l’avvio delle procedure di licenziamento collettivo, secondo quanto previsto dalla legge 223/91. Inoltre, nel medesimo periodo, sono anche sospese le procedure di licenziamento collettivo pendenti che sono state avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020. Le procedure di licenziamento collettivo avviate prima del 23 febbraio 2020 possono essere portate a termine senza vincoli.
Inoltre, per quanto riguarda i licenziamenti individuali, nel medesimo periodo, e quindi, fino al 16 maggio 2020, il datore di lavoro ha il divieto di licenziare il lavoratore per giustificato motivo oggettivo, ai sensi dell’art.3 della Legge 604/1966.
Le due norme cui fa rinvio il Decreto-legge, per i licenziamenti collettivi ed individuali, si riferiscono, rispettivamente, alla «riduzione o trasformazione di attività o di lavoro» che – ai sensi dell’articolo 24 della Legge n. 223/1991 – consente l’avvio da parte dell’imprenditore della procedura di licenziamento collettivo e, nel caso di licenziamento individuale, alle «ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa» che legittimano il recesso datoriale con preavviso.
Le previsioni di cui sopra prescindono da qualsiasi collegamento con l’emergenza Coronavirus e, quindi, anche se le procedure di licenziamento sono determinate da altre motivazioni, queste, devono essere sospese.
Ciò che distingue il licenziamento collettivo da quello individuale sono elementi meramente “formali” di carattere numerico-temporale, del tutto estranei alle ragioni sulle quali il recesso è fondato, quali il numero complessivo dei dipendenti in forza presso il datore di lavoro e di quelli in esubero nonché l’arco temporale durante il quale i recessi vengono intimati.
La norma di riferimento per quanto attiene ai licenziamenti collettivi è, infatti, l’art. 24 della citata L.223/91 che si riferisce ad «almeno cinque licenziamenti, nell’arco di centoventi giorni, in ciascuna unità produttiva, o in più unità produttive nell’ambito del territorio di una stessa provincia», che vengano intimati da «imprese che occupino più di quindici dipendenti».
La norma di protezione dei lavoratori, prevista dal citato art. 46 del D.L. n. 18/2020 mira proprio a scongiurare il massiccio ricorso a licenziamenti per ragioni economiche. Il legislatore ha fatto, quindi, divieto ai datori di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti occupati, di recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3, legge 15 luglio 1966, n. 604 ovvero, ricorrendone i presupposti di legge, di dare avvio alle procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24, della legge 23 luglio 1991, n. 223 per un periodo di sessanta giorni decorrenti dalla pubblicazione del decreto cd. “Cura Italia” in Gazzetta Ufficiale, avvenuta il 17 marzo scorso.
Una ulteriore ipotesi di recesso del datore di lavoro è rappresentata dal licenziamento di un dipendente con qualifica di quadro, impiegato o operaio assunto antecedentemente al 7 marzo 2015 intimato dal datore di lavoro avente i requisiti dimensionali previsti dal nuovo art. 18, comma 8, della legge n. 300 del 1970.
Tali datori di lavoro devono obbligatoriamente esperire una procedura di conciliazione davanti alla Commissione provinciale di conciliazione presso la Direzione territoriale del lavoro prima di intimare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (ossia il licenziamento determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa). La procedura di conciliazione si configura, quindi, come condizione di legittimità dell’atto di recesso, con gli effetti di cui al sesto comma del nuovo art. 18, legge n. 300/1970, in caso di sua assenza.
La procedura prevede che l’imprenditore deve comunicare la propria intenzione di procedere al recesso, indicandone contestualmente i motivi costituenti il giustificato motivo oggettivo di licenziamento, all’Ispettorato Territoriale del Lavoro (ITL) competente per territorio nonché al lavoratore interessato; entro sette giorni dalla ricezione della comunicazione la ITL convoca le parti davanti alla commissione di conciliazione per il tentativo di conciliazione; ove le parti non raggiungano un accordo, il datore di lavoro può intimare il recesso all’esito dell’incontro.
Come altrettanto noto, ai sensi dell’art. 1, comma 41, Legge n. 92/2012, in tale ipotesi l’efficacia del licenziamento retroagisce alla data di avvio della procedura e il periodo intercorrente tra detta data e quella in cui il recesso viene concretamente intimato è considerata a tutti gli effetti periodo di preavviso lavorato.
Atteso che, in ragione delle misure di contenimento dell’epidemia adottate dal nostro Governo, è precluso alle ITL convocare le parti davanti alla commissione di conciliazione prima del 4 aprile 2020 (secondo quanto stabilito dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro con nota del 10 marzo 2020, prot. n. 2117), benché le stesse siano operative e procedano quindi a riscontrare le comunicazioni di avvio della procedura fissando la convocazione delle parti, si potrebbero porre dei problemi di tipo “operativo” ogniqualvolta il periodo di preavviso contrattualmente dovuto al prestatore non sia sufficientemente “capiente”, vale a dire abbia durata inferiore all’arco temporale intercorrente tra la data di invio della comunicazione di avvio della procedura da parte del datore di lavoro e quella di convocazione delle parti davanti alla commissione di conciliazione, come tipicamente avviene nel caso di dipendenti ai quali sia attribuito il livello più basso della declaratoria contrattuale e che abbiano maturato una contenuta anzianità aziendale.
L’unica soluzione validamente adottabile per ovviare al problema sembra pertanto quella di considerare i giorni eccendenti il preavviso contrattualmente previsto quale preavviso convenzionale, di durata superiore a quella stabilita dal contratto collettivo in ragione della qualifica e dell’anzianità aziendale del prestatore; questa soluzione, del resto, appare pienamente legittima in quanto rappresenta un trattamento di miglior favore per il lavoratore rispetto a quello cui questi avrebbe diritto ai sensi della disciplina contrattuale.
Quindi, stante il divieto di licenziamenti, sia collettivi e sia individuali, nel periodo 17 marzo-16 maggio 2020, l’unica possibilità di recesso dal contratto di lavoro per decisione del datore di lavoro, ricorrendone i presupposti, è costituita, quindi, dal licenziamento individuale per giusta causa.
Naturalmente, in assenza di qualsiasi previsione nel Decreto-legge in commento, si ritiene possano essere considerate valide le dimissioni rassegnate dal lavoratore, senza prescindere dalle procedure telematiche, e si considerano, altresì, valide le dimissioni per giusta causa.
A tal fine si ritiene utile ricordare che la giurisprudenza ha individuato alcune ipotesi configuranti giusta causa di dimissioni del dipendente, tra le quali si ricordano la mancata corresponsione della retribuzione, la mancata regolarizzazione della posizione contributiva, l’omesso versamento dei contributi previdenziali e l’assenza di idonee misure di sicurezza sui luoghi di lavoro, ecc.
L’ipotesi del licenziamento dei dirigenti è disciplinata dall’art. 2118 cod. civ. e non dall’art. 3 della Legge 604/1966, inapplicabile al personale dirigenziale per espressa previsione dell’art.10 della medesima legge.
Tenuto conto che l’art. 46 del Decreto-legge n. 18/2020 fa esplicito riferimento all’art. 3 della legge n.604/1966, pacificamente non applicabile al personale dirigenziale per i motivi esposti all’alinea precedente, sembrerebbero conseguentemente esclusi dal “divieto” di licenziamento individuale per ragioni oggettive i dirigenti, che potrebbero quindi essere licenziati “a causa” del Coronavirus anche nella vigenza del “divieto” di licenziamento valido per tutti gli altri lavoratori.
Eventuali licenziamenti comunicati nel periodo compreso tra il 17 marzo 2020 ed il 16 maggio 2020 rimangono, quindi, privi di valore giuridico.
Inoltre, alla luce del decreto cd. “Cura Italia”, nonostante il periodo di quarantena con sorveglianza attiva, per coloro che abbiano avuto contatti stretti con casi confermati di Covid-19, ovvero quello di permanenza domiciliare fiduciaria, con sorveglianza attiva per quanti abbiano fatto ingresso in Italia da zone a rischio epidemiologico, sia «equiparato a malattia» ai fini della fruizione del relativo trattamento economico da parte dei lavoratori interessati, tale equiparazione non si estende alla computabilità dell’assenza nel periodo di comporto, atteso che – per espressa previsione normativa – il periodo di “isolamento” «non è computabile ai fini del periodo di comporto 15 » (art. 26 del D.L. n. 18/2020).
Per quanto riguarda, invece, i licenziamenti per giusta causa, determinati, quindi, da motivi disciplinari l’ipotesi che pare riscontrarsi di frequente riguarda i dipendenti delle aziende le cui attività non siano state interessate dalla sospensione dell’attività lavorativa disposta con il DPCM dell’11 marzo 2020, che non si presentino sul luogo di lavoro per timore di contrarre il virus.
Tale ipotesi, infatti, potrebbe a seconda dei casi (ovvero a fronte di un timore infondato perché esagerato o non supportato da elementi obiettivi) rappresentare un’ipotesi di assenza ingiustificata, sanzionabile con il licenziamento, per giusta causa («causa che non consenta la prosecuzione anche provvisoria, del rapporto» (art. 2119 cod. civ.). ovvero giustificato motivo soggettivo («notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro», che consente il recesso datoriale con preavviso ai sensi dell’art. 3 della Legge n. 604/1966.), a seconda delle previsioni del contratto collettivo applicabile.
Tuttavia, affinché l’assenza possa essere considerata ingiustificata, occorre che il datore di lavoro abbia apprestato misure idonee a eliminare o quantomeno ridurre significativamente il rischio di contagio sul luogo di lavoro: diversamente, infatti, il lavoratore potrebbe opporre l’eccezione di
inadempimento ex art. 1460 cod. civ., così precludendo il recesso datoriale.
L’individuazione di tali misure sembra dover essere condotta mediante rinvio al “Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro” siglato in data 14 marzo 2020 tra le parti sociali su invito del Presidente del Consiglio dei ministri e dei Ministri competenti: pertanto, il datore di lavoro dovrà fornire adeguata informazione preventiva ai lavoratori circa il divieto di recarsi in azienda per coloro che manifestino i sintomi del virus ovvero abbiano avuto contatti con persone infette; effettuare la misurazione della temperatura corporea in ingresso; disporre la sanificazione degli ambienti di lavoro nonché assicurarsi che la pulizia ordinaria periodica interessi le superfici toccate più di frequente (quali, ad esempio, mouse e interruttori); imporre il lavaggio della mani da parte dei lavoratori nonché rendere disponibile il gel per la disinfezione affinché questi lo utilizzino durante l’attività lavorativa; garantire che sia rispettata la distanza di sicurezza di almeno un metro ovvero, ove ciò non sia possibile in ragione delle lavorazioni, dotare i lavoratori di mascherine chirurgiche o visiere paraschizzi facciali intere.
Fuori dal campo di applicazione dell’art. 1460 cod. civ. citato, dunque, appare giustificato il licenziamento disciplinare del prestatore nell’ipotesi sopra considerata, il quale – al pari del recesso datoriale per superamento del periodo di comporto – non è infatti precluso dal generale “divieto” introdotto dal recentissimo decreto cd. “Cura Italia”, né sembrano potersi porre problemi di tipo pratico per l’intimazione del recesso, salva l’ovvia precisazione che l’eventuale audizione orale richiesta dal lavoratore nell’ambito della procedura disciplinare prevista dall’art.7 dello Statuto dei Lavoratori dovrà avvenire nel pieno rispetto delle misure di prevenzione sopra descritte.
Infine, si precisa che per giurisprudenza assolutamente granitica, in mancanza di contestualità tra emissione e ricezione della lettera di licenziamento, come in caso di affidamento al servizio postale, ad assumere rilievo è la data di invio della lettera raccomandata.
Pertanto, eventuali licenziamenti comminati tramite raccomandata postale inviata in epoca successiva alla data del 17 marzo 2020, sebbene datati in epoca antecedente, sono certamente privi di rilevanza giuridica ed il lavoratore mantiene il diritto alla retribuzione diretta e indiretta, al TFR, alle ferie, ecc.
Palermo 28 marzo 2020
Avv. Dott. Angelo Pisciotta