Come è noto, la legge non disciplina in maniera pedissequa tutti gli aspetti del rapporto di lavoro ed, invero, di ciò si preoccupa la contrattazione collettiva di categoria che costituisce una fonte della disciplina applicabile al rapporto di lavoro.
Peraltro, il contratto collettivo nazionale di lavoro è comunemente assunto dalla giurisprudenza quale “parametro” per valutare la congruità del trattamento economico e normativo applicato ai rapporti di lavoro subordinati.
La legittimazione ad utilizzare tale unico parametro esistente deriva dall’articolo 2099 c.c. laddove stabilisce che, in mancanza di norme di contratti collettivi o di accordi individuali tra le parti, la retribuzione è determinata dal giudice.
Quindi, il legislatore del codice civile, prima, ed il legislatore costituzionale, dopo, affidano ai CCNL un ruolo centrale. In realtà, come è noto, l’articolo 39 della Costituzione presuppone, affinché tali CCNL abbiano efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alla categoria cui il contratto si riferisce, un sistema di “registrazione dei sindacati” che non è mai stato attuato. Di fatto, però, le previsioni dei CCNL, essendo l’unico parametro esistente, vengono assunte, anche se non sempre in maniera integrale, per valutare la “giustezza” della retribuzione rispetto al dettato dell’articolo 36 della Costituzione.
Con il Protocollo di intesa sulla politica dei redditi e sugli assetti contrattuali del 23 luglio 1993 si è voluto superare il precedente modello centralizzato introducendo due livelli negoziali: il primo, affidato al contratto collettivo nazionale di categoria; il secondo, demandato al contratto aziendale o territoriale. A questi due livelli venivano demandate competenze diverse e non sovrapponibili. Quindi, la centralità della contrattazione è stata mantenuta dal contratto nazionale di categoria che esercitava una funzione gerarchicamente sovraordinata rispetto al contratto aziendale, cui erano invece demandate materie ed istituti diversi e non ripetitivi rispetto a quelli del CCNL.
Esigenze determinate anche dai mutamenti economici hanno imposto un primo ripensamento di questo rapporto gerarchico e nell’accordo del 22 gennaio 2009 viene infatti previsto che, fermo restando la funzione integratrice della contrattazione decentrata rispetto al contratto nazionale, se ne prevede la derogabilità a livello aziendale o territoriale per fronteggiare crisi o per favorire l’insediamento di nuove attività produttive. Quindi, soltanto nei casi di crisi o per l’insediamento di nuove attività produttive la contrattazione di secondo livello poteva assurgere ad un ruolo da protagonista.
Successivamente, sempre nella medesima direzione di accrescere gli spazi di manovra della contrattazione aziendale e territoriale, il legislatore è intervenuto con l’articolo 8 del D.L.138/2011, convertito in Legge n.148/2011 introducendo i “contratti di prossimità”. Il termine “prossimità” attiene alla maggiore vicinanza fisica delle parti sindacali ai lavoratori e all’azienda rispetto alle rappresentanze sindacali nazionali.
Il legislatore, infatti, valuta la “prossimità”, quindi la vicinanza delle organizzazioni territoriali o aziendali quale fattore di maggiore conoscenza delle realtà, soprattutto per le imprese più piccole e tale maggiore vicinanza dovrebbe, nelle intenzioni del legislatore, adattare gli accordi sindacali come “un abito su misura” per ciascuna realtà produttiva o aziendale.
Tale idea di decentrare la funzione della rappresentanza sindacale, sembra per certi versi rimarcare il decentramento che negli anni precedenti ha indotto il legislatore costituzionale a cedere parte della potestà legislativa dello Stato in favore degli enti locali introducendo la legislazione concorrente per alcune materie. Se tale legislazione concorrente abbia o no avuto successo non è argomento che sarà trattato nel presente elaborato.
I contratti di prossimità, quindi, rispetto agli Accordi stipulati negli anni 1993 e 2009, prevedono la possibilità non solo di derogare alla contrattazione nazionale ma di derogare anche ad una serie di disposizioni legislative, ovviamente, fermo restando i diritti previsti dalla Costituzione, dalle normative dell’Unione Europea e degli organismi internazionali che sono considerati un limite invalicabile.
Quindi, le intese derivanti dalla stipula dei contratti di prossimità possono riguardare: la maggiore occupazione, l’emersione del lavoro irregolare, gli incrementi di competitività e di salario, la gestione delle crisi aziendali e occupazionali, gli investimenti e l’avvio di nuove attività.
Bisogna ribadire innanzitutto la distinzione concettuale tra “giusta retribuzione” e “retribuzione sindacale” solo in apparenza coincidenti all’atto pratico della valutazione giudiziale nel caso concreto. Infatti, il contenuto del diritto alla giusta retribuzione, ex art. 36 Costituzione, si specifica nell’individuazione di un trattamento economico, che solo in parte può dirsi compatibile con quello previsto dai contratti collettivi efficaci erga omnes, ex art. 39 Costituzione, co. 4.
Quindi, gli spazi di manovra che il legislatore attribuisce agli accordi di prossimità sono certamente riferibili a quelle materie che integrano la giusta retribuzione (ex art. 36 Costituzione) fino ad arrivare alla retribuzione sindacale (ex art. 39 Costituzione).
Nell’affrontare questo tema occorre soffermarsi sulla funzione fondamentale del c.d. trattamento retributivo minimo, ovvero quella di soddisfare un’esigenza garantistica del lavoratore.
La dottrina e la giurisprudenza hanno preso atto che l’istituto retributivo complessivamente inteso è stato determinato dalla contrattazione collettiva, che lo ha articolato in un sistema di diverse ed eterogenee voci, che in parte esulano da quella del minimo retributivo.
Pertanto, la retribuzione non è affatto un tutt’uno unitario ed inscindibile, ma è articolata in numerose voci o elementi ciascuna delle quali ha una sua funzione e viene determinata utilizzando criteri diversi.
Tale classificazione individua gli elementi che concorrono a costituire il contenuto minimo della retribuzione nei c.d. elementi fissi, ossia quelle voci che necessariamente devono comporre il trattamento retributivo del lavoratore (la c.d. paga base, prevista in una diversa entità dal contratto collettivo di categoria a seconda dell’inquadramento professionale e delle rispettive declaratorie contrattuali e, la voce dell’indennità di contingenza).
Tali elementi, che coinciderebbero con la nozione di minimo costituzionale, ex art. 36 Costituzione, non esauriscono però il trattamento retributivo complessivamente inteso, previsto dal contratto collettivo.
Altri istituti concorrono, infatti, a formare il trattamento economico globale del lavoratore (il superminimo individuale o collettivo, ovvero il c.d. trattamento aggiuntivo per la contrattazione individuale o aziendale, gli scatti di anzianità, ovvero quella parte di retribuzione legata alla permanenza in azienda del lavoratore nella stessa categoria professionale, il premio di produzione o produttività, ovvero la maggiorazione retributiva incentivante, determinata a livello aziendale, calcolata sulla base dei risultati ottenuti dal fattore lavoro in relazione agli indici di produttività del complesso produttivo, i compensi a vario titolo, ad es. per lavoro straordinario, notturno, festivo, ovvero la maggiorazione retributiva che tiene conto della maggiore durata o del maggiore disagio della prestazione di lavoro, oltre ad altre indennità varie previste dalla stessa contrattazione, nazionale o aziendale).
L’inconveniente dell’eccessivo costo del lavoro è un problema che più che mai oggi giorno necessita di interventi sul trattamento economico dei lavoratori al fine di garantire una maggiore competitività alle imprese.
Difatti, a livello di politiche gestionali la retribuzione diventa una componente variabile, ovvero una componente capace di adeguarsi alle diverse realtà ed esigenze organizzative.
Questo fenomeno in costante aumento soprattutto negli ultimi anni, procede di pari passo con il ruolo di supremazia che sta pian piano acquisendo la contrattazione a livello aziendale, nella disciplina del rapporto di lavoro subordinato.
Altro aspetto che merita di essere indagato, alla luce dell’utilizzo dei contratti di prossimità, è quello legato ai contributi previdenziali dovuti. L’art. 1, comma 1, D.L. n. 338/1989, stabilisce che la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza e di assistenza sociale non può essere inferiore all’importo delle retribuzioni stabilite da leggi, regolamenti, contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale, ovvero da accordi collettivi o contratti individuali, qualora ne derivi una retribuzione di importo superiore a quello previsto dal contratto collettivo. La previsione normativa non poteva essere differente in un momento storico in cui i contratti aziendali avevano poco spazio e non potevano che migliorare le previsioni dei CCNL.
Quindi, nell’ipotesi in cui i contratti di prossimità prevedano delle retribuzioni inferiori a quelle previste dal CCNL i contributi dovranno essere comunque calcolati su queste ultime.
Inoltre, sempre in tema di contribuzione previdenziale dovuta, si pone il problema di conciliare i contratti di prossimità con le agevolazioni contributive, prima su tutte l’articolo 8 comma 9 della Legge 407/90. Ed infatti, è sufficiente il richiamo all’articolo 1 comma 1175 della Legge 296/2006 per valutare come i benefici normativi e contributivi, previsti dalla normativa, siano subordinati al rispetto degli accordi e dei contratti collettivi nazionali, nonché di quelli regionali o aziendali. Non si può tacere che la legge 296/2006 sia entrata in vigore in un momento storico ben diverso da quello attuale che, invece, legittima ora accordi sindacali in deroga. E altrettanto vero è che deroghe in pejus non hanno mai trovato libero accesso nel nostro sistema legislativo, atteso che gli accordi di secondo livello hanno sempre previsto clausole migliorative. Quindi, il comma 1175 articolo 1 della Legge 296/2006, ove indica il contratti di secondo livello, implicitamente si riferisce a situazioni di una contrattazione collettiva migliorativa del CCNL.
In definitiva, dunque, la stipula di un contratto di prossimità, che contenga solo deroghe in pejus rispetto al CCNL, finirebbe inevitabilmente con il pregiudicare la fruizione, da parte del datore di lavoro, delle possibili agevolazioni contributive. Sembrerebbe, invece, potersi affermare che la conclusione di accordi di prossimità che non contengano previsioni peggiorative rispetto alla contrattazione nazionale, ma previsioni difformi da quest’ultima, possano consentire al datore di lavoro di accedere e di mantenere le agevolazioni contributive.
Naturalmente, sul piano pratico, nell’ipotesi di accordi di prossimità che contengano soltanto previsioni in pejus rispetto al CCNL, il datore di lavoro dovrà mettere a confronto, il maggior costo del personale derivante da un aumento dei contributi previdenziali per la eventuale perdita delle agevolazioni contributive dal minor costo derivante dalle eventuali riduzioni di retribuzione derivante dagli accordi de qua.
Passando adesso ad una trattazione non negativa dello strumento accordi di prossimità, è possibile ipotizzare l’uso di tali contratti di secondo livello per l’avvio di nuove attività, sfruttando quei piccolissimi spazi di manovra offerti da alcuni CCNL.
In particolare, nel caso in cui nel campo di applicazione del CCNL siano previste ulteriori attività rispetto a quella normalmente esercitata dall’azienda e quest’ultima volesse intraprendere tali ulteriori attività si pone il problema di attribuire il lavoratore a mansioni promiscue (inferiori, superiori o anche solo equivalenti rispetto a quelle concordate in fase di assunzione). È il caso delle imprese di pulizia che applicano il CCNL Servizi di Pulizia Aziende Industriali, in cui è previsto che: “le attività svolte per la committenza pubblica e privata, così come delineate nei commi successivi, possono essere gestite nell’ambito di imprese tradizionali di pulizia e/o di imprese di servizi integrati/multiservizio/global-service. Sono conseguentemente escluse dalla sfera di applicazione del contratto le eventuali autonome attività, anche per specifici contratti di committenza, ai rapporti di lavoro delle quali si applichino, secondo la vigente normativa, autonomi e specifici c.c.n.l. corrispondenti”.
In pratica, le imprese di pulizia che prestano altri servizi, come i servizi di manutenzione, i servizi di conduzione e gestione impianti, i servizi di controllo accessi, servizi ausiliari museali, fieristici e congressuali, i servizi alla ristorazione, i servizi di pulizia, di manutenzione e altri servizi in domicili privati, i servizi ausiliari del trasporto e tanti altri, se prestati alla medesima committenza nei cui confronti sono svolte le attività di pulizia, utilizzeranno anche per questi lavoratori il CCNL delle imprese di pulizia.
Orbene, tra le attività previste dal CCNL delle imprese di pulizia ve ne sono alcune tipicamente demandate al settore edile il cui costo del personale è quasi doppio rispetto a quello delle imprese di pulizia. Ecco che grazie ad un contratto di prossimità, le imprese che applicano il CCNL delle imprese di pulizia riescono a dimezzare il costo del personale e a porsi sul mercato come dei competitors che riescono certamente ad offrire un servizio ad un prezzo nettamente più basso rispetto alle imprese appartenenti al settore edile che comporta un costo del personale molto più alto, quasi doppio.
Analoghe considerazioni possono essere svolte per le imprese che applicano il CCNL Terziario nel cui campo di applicazione al punto 54 della lettera E è prevista la possibilità di svolgere “altri servizi alle persone”. In pratica, una azienda che applica il contratto Terziario che si occupa di commercio di generi alimentari potrebbe intraprendere una seconda attività di servizi alla persona.
Naturalmente, le implicazioni e gli aspetti da valutare, nella conclusione di un contratto di prossimità sono tantissimi e di conseguenza l’argomento merita grande attenzione e soprattutto buona conoscenza della materia.
Dott. Angelo Pisciotta