L’obbligo di repêchage

L’obbligo di repêchage

In base a quanto previsto dall’articolo 3 della legge 15 luglio 1966 n.604 il licenziamento per giustificato motivo “oggettivo” è collegato a ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al suo regolare funzionamento.

La sussistenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento è subordinata al verificarsi di due condizioni: che il recesso sia stato determinato da obiettive esigenze organizzative o produttive aziendali e che il lavoratore licenziato non possa essere riutilizzato in altro settore aziendale (c.d. “repêchage”), con la conseguente dimostrazione da parte del datore di lavoro.

Occorre capire qual è il limite entro cui il datore di lavoro sia obbligato a tentare di utilizzare il lavoratore, il cui posto è stato soppresso. Inizialmente l’idea della giurisprudenza era quella di salvaguardare il posto di lavoro ipotizzando che lo stesso lavoratore potesse essere adibito, all’interno della stessa azienda, a mansioni equivalenti. Nel tempo, però, la giurisprudenza ha allargato a dismisura la cerchia delle ipotesi in cui il lavoratore debba essere utilizzato in maniera alternativa e si è via via affermata la tesi del licenziamento come extrema ratio. Successivamente, infatti, i giudici hanno allargato il ripescaggio anche alle mansioni inferiori o a posizioni part-time.

In pratica, sempreché vi sia capienza all’interno dell’impresa, il datore di lavoro, che abbia soppresso il posto di lavoro, deve proporre una modifica delle mansioni o dell’orario di lavoro concordato all’atto dell’assunzione.

La suprema Corte di Cassazione si è poi spinta oltre, estendendo il repêchage a posizioni lavorative esistenti presso altra azienda facente parte del medesimo gruppo, imponendo così addirittura una modifica soggettiva del contratto di lavoro e imponendo l’assunzione di un lavoratore ad un soggetto terzo.

Di recente, la giurisprudenza ha tentato di alleggerire la posizione del datore di lavoro ed ha addossato al lavoratore l’individuazione delle posizioni lavorative alternative al licenziamento, gravando poi sul datore di lavoro l’onere di provare l’inutilizzabilità del lavoratore in quelle posizioni.

Quando il giustificato motivo si identifica nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, non sono utilizzabili né il normale criterio della posizione lavorativa da sopprimere in quanto non necessaria, né il criterio della impossibilità di repêchage, in quanto tutte le posizioni lavorative sono equivalenti e tutti i lavoratori sono potenzialmente licenziabili.

La scelta del dipendente da licenziare risulta limitata, oltre che dal divieto di atti discriminatori, dalle regole di correttezza e buona fede, cui deve essere informato ogni comportamento delle parti del rapporto obbligatorio e, quindi anche il recesso di una delle stesse (Sentenza n. 7046/2011 Corte di Cassazione).

In mancanza dei contratti collettivi stipulati con i sindacati l’individuazione dei lavoratori da licenziare in presenza di giustificato motivo oggettivo deve avvenire nel rispetto dei seguenti criteri in concorso tra loro: 1) esigenze tecniche, produttive ed organizzative; 2) anzianità; 3) carichi di famiglia.

Un’importante novità, che riguarda solo i datori di lavoro che occupano un numero di dipendenti superiore a 15, è stata introdotta dalla legge n.92/2012 che ha sostituito l’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n.604.

I datori di lavoro che occupano più di 15 dipendenti che intendano effettuare un licenziamento per giustificato motivo oggettivo di un proprio dipendente, devono prima di tutto inviare una comunicazione alla Direzione Territoriale del Lavoro del luogo dove il lavoratore presta la propria opera ed al lavoratore, per conoscenza.

In pratica il legislatore ha voluto introdurre una sorta di verifica ex ante circa la reale possibilità di soluzioni alternative al licenziamento, in modo da porre un freno all’ingiustificato aumento dei casi in cui la giurisprudenza considerava non correttamente assolto l’obbligo di repêchage, attraverso un tentativo di conciliazione, da concludersi entro venti giorni dal momento in cui la Direzione Territoriale del Lavoro ha trasmesso la convocazione per l’incontro.

Se la conciliazione ha esito positivo e prevede la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, si applicano le disposizioni in materia di Assicurazione sociale per l’impiego (ASpI) e può essere previsto, al fine di favorirne la ricollocazione professionale, l’affidamento del lavoratore ad un’agenzia di cui all’articolo 4, comma 1, lettere a), c) ed e), del D. Lgs. n. 276 del 10 settembre 2003.

Qualora, invece, il tentativo di conciliazione dovesse fallire e, comunque, decorso il termine di convocazione da parte della DTL (sette giorni), il datore di lavoro può comunicare il licenziamento al lavoratore.

       Palermo, 24 Settembre 2013                                                        Dott. Angelo Pisciotta