Fatture false, l’acquirente non è tenuto a indagare

Fatture false, l’acquirente non è tenuto a indagare

Le fatture per operazioni inesistenti rappresentano una modalità di evasione di particolare gravità con schemi spesso semplici ma anche con un insieme di operazioni estremamente complesse.

Le fatture per operazioni inesistenti sono essenzialmente di due tipologie.

La prima, costituita dalle operazioni soggettivamente inesistenti, si configura nel caso in cui il soggetto emittente è diverso da quello che effettivamente realizza l’operazione o, specularmente, nel caso in cui il destinatario della fattura è diverso dall’effettivo acquirente del bene o della prestazione. In pratica, vi è la volontà di occultare il soggetto che realmente pone in essere l’operazione.

Le fatture per operazioni oggettivamente inesistenti sono contraddistinte, invece, dalla parziale o totale assenza della cessione o della prestazione fatturata. Per esempio, la fatturazione di prestazione di servizi mai eseguiti, per via delle difficoltà per gli enti di controllo di poterne contestare la veridicità.

Capita, talvolta, tuttavia, che l’Agenzia delle Entrate o la Guardia di Finanza contestino all’acquirente in buona fede, che riceve la fattura di acquisto, l’inesistenza dell’operazione di acquisto sostenendo, che sebbene il venditore sia un soggetto realmente operante, unitamente alle fatture per attività svolte, ne emetta anche di false, oppure, come accade di frequente, di un soggetto privo di sostanza economica, la cosiddetta “cartiera”, la quale altro scopo non ha se non quello di emettere fatture per scopi illeciti di varia natura, classificando l’operazione come inesistente e recuperando a tassazione sia il costo, che si ritiene indeducibile, sia l’iva detratta.

Tralasciando l’aspetto delle sanzioni sia civili sia penali, non oggetto della presente circolare, è utile ricordare che nel caso di fatture inesistenti, per l’assolvimento dell’onere probatorio della conoscenza o conoscibilità dell’acquirente della frode consumata dal fornitore, l’amministrazione non può richiedere al contribuente di effettuare verifiche complesse simili a quelli che l’amministrazione stessa può eseguire con i propri mezzi.

Questo principio è stato stabilito dalla Corte di cassazione nella sentenza 14102/2024; la vicenda affrontata nella sentenza è sostanzialmente simile a molti casi verificatisi negli ultimi anni.

All’acquirente dei beni viene contestata l’indetraibilità dell’IVA a causa di fatture soggettivamente inesistenti perché emesse da un’impresa che ha omesso gli adempimenti fiscali, priva di struttura e talvolta senza dipendenti.

Secondo la giurisprudenza consolidata a livello europeo e nazionale, per rettificare l’IVA sugli acquisti, l’Ufficio deve dimostrare, anche in via presuntiva, che il cessionario conosceva o avrebbe potuto conoscere l’illecito commesso dal cedente.

In numerosi controlli, la dimostrazione di tale consapevolezza è rappresentata dalle violazioni fiscali commesse dal venditore (omissioni nella dichiarazione, mancati versamenti, precedenti contestazioni simili e così via).

Non ha rilevanza il fatto che l’acquirente non avrebbe potuto ottenere tali informazioni, sia perché sono dati non accessibili a terzi, sia perché non dispone dei poteri o delle banche dati dell’amministrazione finanziaria.

Nel caso esaminato dalla Cassazione, l’Ufficio recuperava l’IVA detratta sugli acquisti di confezioni considerate soggettivamente inesistenti, in quanto il fornitore sarebbe stato privo di organizzazione.

I due giudizi di merito hanno confermato sostanzialmente la richiesta: in particolare, secondo i giudici d’appello, si trattava di fatture soggettivamente inesistenti a causa della mancanza di adeguata manodopera da parte del fornitore e della falsità delle fatture relative all’acquisto degli strumenti di produzione (macchine da cucire).

Nel ricorso per Cassazione, la difesa sollevava diverse questioni. Una di queste riguardava il fatto che la rettifica si concentrava sull’assenza di organizzazione del fornitore senza esaminare se l’acquirente fosse a conoscenza dell’inganno.

Inoltre, la mancanza di personale per gestire i beni venduti successivamente e la falsità della fornitura delle attrezzature non potevano essere imputate all’acquirente, specialmente perché non aveva poteri ispettivi simili a quelli dell’Ufficio.

Inoltre, non è stato considerato che i prezzi praticati erano in linea con quelli di mercato e non c’era prova che il cedente avesse restituito parte dell’Iva alla società.

La Corte Suprema ha sottolineato che, in caso di contabilizzazione di fatture emesse da società non organizzate o da intermediari, l’Amministrazione deve dimostrare la consapevolezza del destinatario riguardo all’evasione, fornendo anche prove presuntive basate su elementi oggettivi specifici.

Una volta soddisfatto questo onere, spetta al contribuente dimostrare di aver agito con la massima diligenza esigibile da un operatore accorto, conformemente ai principi di ragionevolezza e proporzionalità in base alle circostanze effettive.

La sentenza in commento ha chiarito che le assenze di tutele del cessionario non può essere provata pretendendo verifiche approfondite, analoghe a quelle svolte dall’amministrazione con tutti i mezzi a sua disposizione.

Da qui il principio che per dimostrare che il cessionario sapeva o avrebbe dovuto sapere di una frode IVA nella catena di produzione o distribuzione, le cautele che si richiedono devono essere ragionevoli e non complesse. Non si può pretendere che il cessionario faccia verifiche dettagliate come quelle che potrebbe fare l’amministrazione finanziaria.

11 giugno 2024

Avv. Dott. Angelo Pisciotta