L’art. 2 del D.Lgs. n. 74/2000 definisce il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. Il fatto si considera commesso quando le fatture o/e gli altri documenti relativi ad operazioni inesistenti sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie o sono detenuti al fine di prova nei confronti dell’Amministrazione finanziaria.
La Suprema Corte ha precisato, con la Sentenza 11 luglio 2012, n. 27392, che il delitto di cui all’art. 2 del D.Lgs. n. 74/2000 è integrato sia nell’ipotesi di falsità ideologica sia nell’ipotesi di falsità materiale.
Si ha falsità ideologica quando un soggetto compiacente emette un documento fiscale (fattura o ricevuta) a favore di un altro soggetto affinché questi ne possa conseguire dei benefici fiscali. Questa fattispecie si ha nel caso di fatture oggettivamente inesistenti, ossia quando la cessione di beni o la prestazione di servizi attestata nella fattura o altro documento affine non sia in realtà avvenuta o sia stata effettuata in termini quantitativi minori rispetto al dichiarato; nel caso di fatture soggettivamente inesistenti, ossia operazioni effettivamente avvenute, ma tra soggetti diversi da quelli indicati nella documentazione; e nel caso di sovrafatturazione, cioè nell’ipotesi in cui la fattura faccia riferimento ad un’operazione che è stata effettuata, ma indicando un costo maggiore di quanto effettivamente sostenuto.
La falsità materiale, invece, si ha quando il soggetto che risulta essere l’emittente del documento falso non ne è a conoscenza, non avendolo mai emesso, ovvero quando ignora che un proprio documento è stato alterato dal cliente che lo ha poi utilizzato ai fini della deduzione.
Secondo il nuovo orientamento giurisprudenziale, emerso in seno alla Suprema Corte, ma che trae origine anche dalla direttiva 117/2012 emanata dalla direzione centrale Affari legali e contenzioso dell’Agenzia delle Entrate, per quanto concerne la tipologia di documenti che possono integrare un’operazione inesistente, penalmente rilevante, occorre fare riferimento a quelli che hanno rilievo probatorio ai fini fiscali, cioè tutti i documenti, anche se non vere e proprie fatture, che costituiscono titolo idoneo per esercitare la deduzione e/o la detrazione. Quindi, oltre alle fatture, vi rientrano anche le: autofatture, le schede carburanti, le ricevute fiscali, le spese mediche, le certificazioni per interessi sui mutui ecc..
Il reato non lo commette solo l’imprenditore che registra in contabilità le fatture ovvero i citati documenti, ma anche il privato che per ridurre la propria imposta dovuta inserisca in dichiarazione elementi falsi.
L’articolo 2 del decreto legislativo 74/2000 sanziona con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chi indica in una delle dichiarazioni annuali ai fini delle imposte sui redditi, ovvero dell’Iva, elementi passivi fittizi utilizzando fatture o altri documenti relativi a operazioni inesistenti.
La realizzazione di tale reato non è subordinata, come avviene nella maggior parte degli altri reati tributari, al superamento di una soglia di imposta evasa ma al più, fino alle modifiche entrate in vigore il 17 settembre 2011, se gli elementi fittizi in un periodo di imposta non superavano i vecchi 300 milioni di lire (circa 154mila euro), scattava un’attenuante con la reclusione da sei mesi a due anni.
L’ipotesi delittuosa, eventualmente denunciata dall’Agenzia delle Entrate, oltre alle conseguenze penali, comporta inevitabilmente anche dei risvolti in ambito fiscale, tra cui il raddoppio dei termini per l’accertamento ovvero l’indeducibilità/indetraibilità dei costi contestati.
La legittimità dell’eventuale raddoppio dei termini utilizzato dall’ufficio, dovrà essere accuratamente valutata in sede difensiva dal giudice per espressa richiesta del contribuente. Il raddoppio non consegue, infatti, da una valutazione discrezionale e meramente soggettiva degli Uffici tributari, ma opera soltanto nel caso in cui siano obiettivamente riscontrabili, da parte del pubblico ufficiale, gli elementi richiesti dall’art. 331 c.p.p., per l’insorgenza dell’obbligo di denuncia penale. A questo proposito bisogna ricordare che sotto un profilo tributario è a carico dell’Amministrazione l’onere di provare la falsità del documento e pertanto in caso di rettifica, dovranno risultare nell’atto i motivi che hanno ritenuto falso il documento, soprattutto qualora abbia beneficiato del citato raddoppio dei termini.
Occorre, inoltre, verificare che l’Ufficio non abbia fatto un uso pretestuoso della norma per emettere una pretesa a termini ordinari ormai scaduti, nel qual caso, infatti, il potere di accertamento risulterebbe decaduto e l’atto tardivo.
Per quanto riguarda l’indeducibilità/indetraibilità, le operazioni soggettivamente inesistenti sono deducibili, in quanto operazioni effettivamente avvenute, ma non sono detraibili ai fini Iva, le operazioni oggettivamente inesistenti, le sovrafatturazioni e i documenti materialmente falsi sono, invece, indeducibili e indetraibili sia in riferimento al costo che all’imposta sul valore aggiunto.
Palermo, 12 novembre 2013 Dott. Angelo Pisciotta