Alcuni lavori, affinché possano essere svolti, prevedono particolari indumenti adeguati a salvaguardare la sicurezza di chi sta lavorando e quella degli altri; all’interno di un contesto lavorativo, prima di procedere con la propria attività, spesso viene richiesto di indossare dispositivi di protezione individuali (chiamati DPI) come caschetti e tute ignifughe, oppure camici e guanti sterilizzati, oppure, in taluni casi, è richiesto ai lavoratori di indossare delle divise o anche di essere truccati in un certo modo.
Il “tempo tuta” è difatti quel periodo di tempo che il lavoratore dipendente impiega per vestirsi in modo adeguato a svolgere la propria prestazione lavorativa.
La regola generale prevede che indossare la divisa da lavoro rientri nelle attività del lavoratore per lo svolgimento della sua professione.
Occorre sottolineare quanto il periodo pandemico abbia aggravato la tematica del “tempo tuta” vista l’emergenza sanitaria che ha imposto, nel settore sanitario, precisi protocolli di vestizione e vestizione allungandone così le tempistiche.
Secondo un consolidato ordinamento di legittimità del 7 giugno 2021, il tempo impiegato per indossare l’abbigliamento di servizio può rientrare nel concetto di orario di lavoro solo se oggetto di eterodirezione, che costituisce il cardine del rapporto di lavoro subordinato.
Diversamente, nel caso in cui l’azienda non ritenesse necessario che la vestizione avvenga all’interno di locali aziendali, verrebbe a mancare quel controllo e direzione che qualificano il tempo impiegato per cambiarsi come orario di lavoro.
Vi è anche un’altra possibilità, ossia quella di poter portare presso il proprio domicilio gli indumenti in discussione, nel momento in cui al lavoratore vengono consegnati degli abiti che non possono essere utilizzati né come dispositivi di prevenzione individuale né in termini di igiene e sicurezza sul lavoro (poiché, ad esempio, devono essere sterili e non contaminati).
Ipotizzando che vi fossero indumenti disponibili solo in azienda, è evidente come il tempo per indossarli (se la policy azienda impone quel vestiario a lavoro) possa far parte di quella funzionalità lavorativa che lo qualificherà come retribuito.
Difatti, in alcuni settori il “tempo tuta” risulta naturalmente funzionale allo svolgimento dell’attività lavorativa in quanto risponde ad obblighi di igiene pubblica che, come tali, comprendono la (s)vestizione alla mansione.
Una volta compresa l’esistenza o meno del tempo “divisa” o “tuta”, dobbiamo porci un interrogativo: ma di quanto “tempo” si tratta? Le tematiche riferite al “tempo tuta” risultano sempre più costanti ed incisive, in particolar modo in quei settori caratterizzati da appalti.
Infine, se il “tempo tuta” è correttamente classificato come orario di lavoro, appare evidente che se tale tempo eccede il normale orario di lavoro, tale tempo deve essere considerato orario di lavoro straordinario.
Palermo, Roma, 18 aprile 2023
Avv. Dott. Angelo Pisciotta